Un volo di gabbiano sul mare dell'oblio...

Ecco cos'è questo spazio di memoria. Non è altro che il tentativo di un volo, come gabbiani inesperti, nella vana speranza di vincere il tempo. Qui, come innocenti pennuti, si abbandonano al vento di tempesta i pensieri e le memorie, in uno spazio senza indirizzo, verso un interlocutore all'infinito, in questo campo di volo, col rischio di bagnarsi le ali, nel tentativo di sfuggire per un istante ai flutti dell'oblio che vorace divora l'esistenza dell'uomo.

2008-01-09

Causa del decesso: Vita.

«In vero siamo tutti malati, questa gravissima malattia, senza cura, il cui decorso porta alla morte, è la vita.»
Con queste parole, ed una carica di pessimismo ontologico sinceramente intensa, oggi ho stupito e, forse, shockato un mio collega. Perché non condividerle quindi? Magari leggendomi riuscirò a provocare in voi l'avvento di una nuova concezione dei livelli di follia a cui una mente umana può ascendere...

Andiamo per logica: gli esseri viventi sono mortali. La morte è la conclusione della vita che ha avuto precedentemente inizio. Se non ci fosse la vita allora non ci sarebbe nemmeno la sua fine. Pertanto l'essere soggetti alla morte è una condizione causata dall'essere vivi. Per cui vivere porta alla morte, vivere è causa di morte. La più grande malattia mortale e incurabile dell'uomo e degli esseri viventi è la vita. Se non fossimo vivi non potremmo morire né essere soggetti alla morte e al giogo emotivo e mentale a cui è sottoposto e si sottopone l'essere mortale.

Alcuni, tra cui questo collega, vedono, giustamente, come una cosa riduttiva il descrivere la vita come una malattia che porta alla morte, poiché, a differenza delle malattia, così sostengono, la vita riserva scoperte e piaceri. In parte sono d'accordo. La vita è un lungo processo di morte tuttavia ricco di scoperte, e, di fatto, è il più utile processo di morte, la più importante malattia senza la quale non saremmo, in un universo senza vita, samrrito in un oblio senza conoscenza.

La vita resta comunque una malattia mortale. Nessuno vorrebbe mai ammalarsi di un male mortale, ma di fatto, è anche vero che nessuno, all'interno di questa sessione di vita, ha mai potuto esprimere la propria opinione sul nascere prima di essere nato. La malattia procura sofferenze e dolore, ma di fatto, è anche vero che la vita, lungo il suo decorso, è un continuo susseguirsi di pene e dolori. La malattia mortale ti logora portandoti infine alla morte, ma di fatto, è anche vero che la vita, con tutti i suoi affanni, ti logora costringendoti all'essere soggetto al tempo, cosa che inevitabilmente ti porta alla morte. Dunque sotto ogni aspetto non si riscontrano differenze tra la malattia e la vita.

Non mi sono dimenticato del piacere. Ma cos'è il piacere? Alcuni sostengono che il piacere è ciò che nella vita va ricercato, poiché il piacere dà uno scopo all'esistenza. Sostengo invece che il piacere altro non è che una vana chimera evanescente. Provate a dirmi qual'è quel piacere duraturo che è in grado di accompagnarci lungo il decorso della nostra vita.

Amore? Soddisfazione? Successo? Sono tutte chimere. L'amore dura finché la noia, la monotonia, il tradimento, la morte o la vita coniugale non lo divorano lasciandone malinconici brandelli che presto non diventano altro che dolorose memorie di un tempo che fu. Le soddisfazioni sono materia effimera e temporanea tanto più irrompenti nello scoppiare e nell'incendiarci l'animo divampando con grande fragore, tanto più veloci a disapparire lasciandosi dietro solo il nero fumo di un ricordo che sbiadisce velocemente. Il successo infine è forse la fonte di piacere più falsa, una condizione soggetta all'immediato e catastrofico mutamento in qualsiasi momento della nostra vita, una condizione che tanto più è alta, tanto più ci costringe a divenire protettivi nei suoi confronti, avidi, guardinghi, ossessionati a tal punto d'essere la causa della nostra stessa distruzione.

Così come queste chimere, esistono molteplici e tantissimi altri miraggi che chiamiamo piacere e che non sono altro che brevissimi e illusori istanti di vita, passati i quali non resta altro che malinconia. Dov'è quindi il senso della vita? Cosa ci sospinge ad andare avanti in questa durevole condanna alla sofferenza cosparsa di false chimere tanto più belle quanto maggiori portatrici di dispiaceri?

Io credo che l'unica attività utile da poter svolgere, frattanto che volenti o nolenti siamo vivi, giusto per non sprecare tempo, sia la ricerca della conoscenza. Tale operazione non solo è di vitale importanza ma è anche naturale e necessaria operazione compiuta dal nostro cervello ed anche dal nostro animo. Essa è tanto razionale quanto irrazionale.

E' certamente operazione razionale ed intellettuale la ricerca di conoscenza e l'applicazione di categorizzazioni e raziocinio al fine di tramutare questa in una complessa rete logica di informazioni. Tuttavia è l'irrazionale impulso ad avere uno scopo che comanda l'insorgere del processo cognitivo. Noi vogliamo conoscere poiché dobbiamo, non abbiamo scelta, non possiamo non individuare un sincero scopo di vita, se non ci fosse questo saremmo destinati ad impazzire fino ad essere causa della nostra estinzione.

Non c'è altro che ci è possibile fare durante il lungo processo di morte che chiamiamo vita, non ci è altresì possibile sottrarci a questo gioco dalle folli regole a cui siamo soggetti poiché insieme al nostro codice genetico e alla nostra natura umana è proprio questa continua sfida contro noi stessi, la vita, a caratterizzarci come esseri viventi.

Colui che ha creato il gioco ha creato anche le regole e, forse, si è chiamato fuori come banco ed osservatore inattivo delle sofferenze dei giocatori. Ma non solo chi ha avuto la facoltà di creare il gioco ha creato le regole, inoltre, ha pure barato nel farlo. Se infatti lo scopo del gioco è quello di trovare il piacere o, piuttosto, perseguire i personali scopi verso l'assoluta conoscenza o, per chi ci crede, l'assoluto piacere, è anche vero che la vita, il gioco stesso quindi, logora il giocatore. Tale azione di lenta erosione si fa tanto più forte quanto più ci si avvicina al traguardo e, quando è ancora infinitamente lontano, di già, inevitabilmente, ci si spegne inerti sotto i colpi infausti dettati dalle regole del gioco.

La vita è quindi un continuo languire verso un irraggiungibile obbiettivo, una sfida senza possibilità di riuscita, un lungo percorso ad ostacoli che non vedrà mai fine. Vivere quindi altro non è che il lungo processo del morire prima del raggiungimento degli scopi.

Perché dunque nella storia gli uomini non si sono allegramente riuniti per un suicidio di massa dopo un abbondante banchetto? Forse proprio per via di quelle regole del gioco che, con tanta saggezza e previdenza, hanno instillato in ogni essere umano quella dose di codardia e autopreservazione sufficiente per impedire che il gioco potesse autoconcludersi lasciando insoddisfatto il presunto osservatore. Citando Shakespeare e la prima scena del terzo atto dell'Amleto, nel suo famoso monologo:
« Essere o non essere: questo è il problema. E' più nobile all'anima sopportare le percosse e gli strali d'una fortuna oltraggiosa, o levarsi in armi contro il cumulo degli affanni e risolutamente finirli? Morire... dormire... null'altro. E col sonno porre un termine alle angosce del cuore e agli infiniti malanni naturali che sono l'eredità della carne: è una conclusione che ben possiamo invocare devotamente. Morire... dormire... Dormire! forse sognare. Si, questo è il nodo: poiché il pensiero dei sogni che possono sopravvenirci in quel sonno di morte, allorché avremo gettato quest'ingombro caduco, deve renderci esitanti. Questa è la riflessione che fa durar così a lungo la sventura. Chi infatti sopporterebbe le sferzate e gli insulti del tempo, le ingiurie dell'oppressore, l'insolenza del superbo, gli spasmi dell'amore disprezzato, gli indugi della giustizia, l'arroganza di coloro che sono investiti delle cariche e le ripulse che il merito paziente deve tollerare degli indegni, quando potesse, con una semplice lama, liberarsene da se solo? Chi vorrebbe portare il fardello di una vita faticosa per gemere e sudare sott'esso, se la paura di qualcosa al di là della morte - il paese inesplorato, dai confini del quale nessun viandante è mai ritornato - non impacciasse la nostra volontà e non ci inducesse a sopportare i mali presenti anziché correre verso altri che non conosciamo? Così la coscienza ci rende tutti codardi; così il colore naturale della risoluzione si illanguidisce nel pallido riflesso del pensiero; e alte imprese e di gran momento sono, per questa considerazione, sviate del loro corso e perdono il nome di azioni... (...)»
Cosa possiamo fare quindi in questa sventurata condizione di quel processo di lunga e deteriorante morte che è la vita? Semplice: trovare nel pessimismo ontologico l'unica fortezza e l'unico scudo ai mali della vita. Dobbiamo soffrire, è ampiamente dimostrato e verificato, ma possiamo sempre riderci sopra!

Col massimo pessimismo possiamo raggiungere quelle vette, o forse quelle massime depressioni, da cui è difficile lasciarsi deludere dal decorrere di eventi dai quali non ci si aspetta nulla di buono e, se per uno strano gioco del caso, qualcosa di buono dovesse arrivare, ben venga, sempre però con la consapevolezza di ciò che ci aspetta una volta passato. Se non possiamo quindi far altro, a causa delle regole che ci sono state imposte, possiamo sempre riderci su, prendere in giro la vita, esercitare tutto il nostro pessimistico sarcasmo per esorcizzarla e scongiurare la possibilità di farci più male di quel minimo sindacale quotidiano che a noi stessi procurerà il nostro pessimismo.

Ho superato il mio primo pessimismo arrabbiato, evolvendo e comprendendo meglio le regole del gioco, approdato alle rive del mio pessimismo ontologico. Ho raggiunto, o tento di raggiungere, la necessaria atarassia che consente l'assoluta indifferenza alle tempeste della vita. Ripescando dal passato, però, concludo con una citazione da un mio scritto, che sarà pubblicato quantomeno postumo, inerente alle regole del gioco.
«Buttami addosso tutte le tempeste del pianeta, seppelliscimi sotto migliaia di metri di terra, fai esplodere questo dannato pianeta se vuoi, poiché nella grande onnipotenza di chi gestisce le regole si può tutto. Nonostante questo continuerò a ridere della vita, a prenderla in giro e a non illudermi. Fammi crepare, ma creperò col sorriso in faccia.»
Mi è stato fatto notare come il mio ego si esalti con parole eleganti che descrivono a meraviglia la mia essenza, e forse altro non è, tutto ciò, che un superbo passatempo dell'ego, nell'eterno gioco di maschere e specchi che è la vita. Chiudo come al solito con una citazione od un motto famoso:
«Se sei giù sorridi, la morte è peggio. Se sei triste sorridi la morte è peggio. Se sei morto sorridi, il peggio è passato.»

1 commento:

Anonimo ha detto...

quello che stavo cercando, grazie