«Ciao, sono il tuo nuovo insegnante di informatica, piacere di conoscerti! Quest'anno, così mi han detto, studieremo assieme un po' di linguaggio di programmazione e, per farlo, ci addentreremo nello strano e diverso mondo dell'informatica esplorando il funzionamento di quel cervello, del tutto privo di intelligenza, che chiamiamo computer...»
Più o meno con queste parole mi è capitato, qualche volta, di presentare il mio corso a qualche giovane studente al primo colloquio con me: il nuovo e sconosciuto insegnante privato. Chissà cosa avranno pensato nel corso dei passati anni gli studenti, in vero di ogni età, che si son sentiti dire cose come queste da quel ragazzotto occhialuto spesso consigliato per passaparola e godente delle garanzie dei loro predecessori (o almeno così credo sia stato...).
Ciò di cui son certo, e che posso qui esprimere, sono le mie impressioni su coloro i quali ho conosciuto in queste situazioni: volti apprensivi, espressioni scrutanti, sguardi indagatori e spesso tanta voglia di sentirsi dire che, beh, non sarà poi così drammatico... Non so che genere di docente sia stato per i miei passati studenti, non so che genere di docente sono per i miei attuali studenti, ma spesso ci penso e mi chiedo se il compito che ho assunto tante volte e che tuttora assumo, quello di devolvere le mie conoscenze a favore di chi mi sta davanti quando insegno, sia in grado di dare i giusti frutti oppure, piuttosto, se tale compito sia da me svolto nella maniera 'migliore'.
Una mia ferma convinzione è che se si raggiunge un livello 'migliore' è anche vero che questo può essere a sua volta migliorabile, poiché, forse, non si finisce mai di migliorare se stessi e di necessitare di migliorie. Tuttavia, frattanto che le mie migliorie, rispetto allo stato primordiale, sono ancora lontane da quelle che avrò portato a compimento fra 30 o 50 anni di insegnamento, mi chiedo: sono sufficienti? Posso reputarmi all'altezza del ruolo per il quale con un pizzico di presunzione mi dichiaro e proclamo pronto a prendere ufficio?
Credo che, per quanto buona possa essere la mia volontà, non potrò mai essere in grado di dare un autonomo ed imparziale e giusto giudizio sulle mie buone o non buone facoltà di insegnante. Ciò che posso fare è lasciare che i miei studenti ne formulino uno, tentando sempre di apportare queste migliorire. Per fare ciò mi è e mi sarà inevitabile cercare proprio nei miei studenti la fonte di allarme che possa consigliarmi di migliorare in una od un'altra performance. Alla fine quindi tutto cambia aspetto.
Da quest'ottica credo che il ruolo dell'insegnante ponga questo, ancora prima che in cattedra a snocciolare e centellinare le proprie conoscenze, al servizio degli studenti diventando studente egli stesso, poiché insegnare insegna ogni giorno ad insegnare meglio. Per permettere però che tali insegnamenti di feedback non si perdano nel vuoto non è ammissibile che colui che ha la presunzione di insegnare non abbia a sua volta la capacità di imparare.
A volte, troppo spesso in vero, tutto ciò viene dimenticato e lo studente viene ridotto ad un numero, come un manichino inanimato buono soltanto ad eseguire in maniera quanto più passiva possibile le direttive assegnate in maniera possibilmente meccanica e priva di complicazioni. Si poiché questo è uno studente a volte: una complicazione. O quantomeno così è visto da una certa porzione, sempre maggiore purtroppo, di docenti o sedicenti tali.
Dal canto mio sono tutt'altro che immune da tali considerazioni, posso solo ricorrere, in sede di assegnamento di direttive, di compiti, mentre insegno qualcosa, chiedermi come io, da studente istituzionale, realtà dalla quale, purtroppo o per fortuna non mi sono ancora tirato fuori, reagirei a tutto ciò, quale sarebbe il mio feedback e quanto questo si rispecchi in ciò che mi viene restituito da colui o colei che ho di fronte.
Forse, semplicemente, guardare negli occhi i propri studenti, cercando i propri in questi, è ciò che manca al moderno 'mestiere' di insegnante, ridotto ad un mestiere, di ben poco valore, dalla miopia e dall'inettitudine di chi decide per la scuola di tutti, dall'inerzia di una categoria di insegnanti sempre più grande, dalla pochezza di iniziative di masse sempre più rintronate e poco disposte a mettere in gioco qualcosa o a mettersi in gioco. Mi chiedo dunque se allora la mia invettiva contro costoro, contro me stesso che faccio parte di coloro che addito, possa essere considerata corretta.
Quando un uso comune diventa buon uso? Ci siamo forse sclerotizzati e cristallizzati su queste modalità di convivenza sul suolo di una nazione, tanto da aver fatto diventare buon uso ciò che un tempo sarebbe stato detto cancro della nostra moderna società? Quando l'Italia ha smesso di ascoltare e guardare i propri giovani con la buona volontà di insegnare ad essi ed imparare da essi? Forse è successo così rapidamente da non rendercene conto, o, piuttosto, è l'esito di un lungo processo di erosione della nostra società e della nostra etica sociale che ci ha portato ad essere sempre meno disposti a fare e sempre più disposti a non fare. Forse è vero che è oramai più sensato chiudere gli occhi, le orecchie e la bocca. Del resto chi mai ci può dire che ci è conveniente l'agire rischiando di perdere quel poco che abbiamo, piuttosto che giacere languendo nell'inazione?
Folli. Folli i nostri politici e folli coloro che pensano tutto questo, folli coloro che hanno permesso che i tempi degenerassero, folli coloro che non hanno voluto guardare ciò che è passato sotto i loro occhi, folli coloro che vogliono costruire l'edificio del nostro futuro con mattoni di carta.
Quando l'Italia sveglierà l'Italia? O è forse tardi per ogni risveglio quando ormai questa nazione giace in un profondo coma senza ritorno? Certo è che se permetteremo l'estinguersi di quest'ultimo barlume di luce, di questa misera fiamma che è la possibilità di un futuro migliore, la quale risiede nelle lanterne dei giovani d'oggi, come potremo guardarci ancora in faccia e dirci cittadini di un popolo senza stato e di uno stato senza popolo?
Dal canto mio dico soltanto NO. Mi rifiuto di pensare ai miei studenti come a carne da macello da gettare sulle braci del mondo moderno per sfamare i soliti maiali di Orwell per i quali la legge è "un po' più uguale che per gli altri". Dal canto mio continuerò sempre a guardare negli occhi i miei studenti, vorrò ricevere da loro il meritato ritorno, vorrò riconoscere i miei occhi nei loro occhi per comprendere cosa è stato compreso. Dal canto mio voglio sperare che non tutto sia finito e che ci possa ancora essere per me e per quanti come me la possibilità di apportare l'enorme e necessaria quantità di migliorie al fine di ristabilire la decenza in una moda di modi ormai indecenti. Dal canto mio voglio pensare a me stesso non come ad un insegnate privato, ma, piuttosto, come ad uno studente a lezione di futuro, con la voglia, sempre presente, di imparare a mia volta come fare imparare meglio, di essere un mattone di dura pietra che forma altri mattoni di dura pietra, costruendo, insieme, l'edificio di quel futuro che spero potremo ancora chiamare Italia.
Forse, ancora una volta, in questo breve articolo di sfogo e di denuncia, se vogliamo, esce fuori quel me sognatore che non rinuncia, frattanto, a concedersi qualche momento di illusoria e forse vana speranza, credendo, per qualche momento, all'utopia di una società agente per se stessa, che domina se stessa senza lasciarsi dominare, che è parte attiva nella realtà sociale propria ed altrui, che tenti di diventare un degno pezzo del gigantesco puzzle che è questo strano enigma che chiamiamo Vita. Questa eterna battaglia tra la società e se stessa, in definitiva, è forse l'unica cosa che, veramente, quando rivolta al fine di migliorarsi e migliorarci, è ciò che profondamente ci caratterizza e legittima come esseri umani. Concludo, come sempre, con una citazione, ritrovando profonda verità nelle parole del sociologo Ralph Dahremdporf:
Ciò di cui son certo, e che posso qui esprimere, sono le mie impressioni su coloro i quali ho conosciuto in queste situazioni: volti apprensivi, espressioni scrutanti, sguardi indagatori e spesso tanta voglia di sentirsi dire che, beh, non sarà poi così drammatico... Non so che genere di docente sia stato per i miei passati studenti, non so che genere di docente sono per i miei attuali studenti, ma spesso ci penso e mi chiedo se il compito che ho assunto tante volte e che tuttora assumo, quello di devolvere le mie conoscenze a favore di chi mi sta davanti quando insegno, sia in grado di dare i giusti frutti oppure, piuttosto, se tale compito sia da me svolto nella maniera 'migliore'.
Una mia ferma convinzione è che se si raggiunge un livello 'migliore' è anche vero che questo può essere a sua volta migliorabile, poiché, forse, non si finisce mai di migliorare se stessi e di necessitare di migliorie. Tuttavia, frattanto che le mie migliorie, rispetto allo stato primordiale, sono ancora lontane da quelle che avrò portato a compimento fra 30 o 50 anni di insegnamento, mi chiedo: sono sufficienti? Posso reputarmi all'altezza del ruolo per il quale con un pizzico di presunzione mi dichiaro e proclamo pronto a prendere ufficio?
Credo che, per quanto buona possa essere la mia volontà, non potrò mai essere in grado di dare un autonomo ed imparziale e giusto giudizio sulle mie buone o non buone facoltà di insegnante. Ciò che posso fare è lasciare che i miei studenti ne formulino uno, tentando sempre di apportare queste migliorire. Per fare ciò mi è e mi sarà inevitabile cercare proprio nei miei studenti la fonte di allarme che possa consigliarmi di migliorare in una od un'altra performance. Alla fine quindi tutto cambia aspetto.
Da quest'ottica credo che il ruolo dell'insegnante ponga questo, ancora prima che in cattedra a snocciolare e centellinare le proprie conoscenze, al servizio degli studenti diventando studente egli stesso, poiché insegnare insegna ogni giorno ad insegnare meglio. Per permettere però che tali insegnamenti di feedback non si perdano nel vuoto non è ammissibile che colui che ha la presunzione di insegnare non abbia a sua volta la capacità di imparare.
A volte, troppo spesso in vero, tutto ciò viene dimenticato e lo studente viene ridotto ad un numero, come un manichino inanimato buono soltanto ad eseguire in maniera quanto più passiva possibile le direttive assegnate in maniera possibilmente meccanica e priva di complicazioni. Si poiché questo è uno studente a volte: una complicazione. O quantomeno così è visto da una certa porzione, sempre maggiore purtroppo, di docenti o sedicenti tali.
Dal canto mio sono tutt'altro che immune da tali considerazioni, posso solo ricorrere, in sede di assegnamento di direttive, di compiti, mentre insegno qualcosa, chiedermi come io, da studente istituzionale, realtà dalla quale, purtroppo o per fortuna non mi sono ancora tirato fuori, reagirei a tutto ciò, quale sarebbe il mio feedback e quanto questo si rispecchi in ciò che mi viene restituito da colui o colei che ho di fronte.
Forse, semplicemente, guardare negli occhi i propri studenti, cercando i propri in questi, è ciò che manca al moderno 'mestiere' di insegnante, ridotto ad un mestiere, di ben poco valore, dalla miopia e dall'inettitudine di chi decide per la scuola di tutti, dall'inerzia di una categoria di insegnanti sempre più grande, dalla pochezza di iniziative di masse sempre più rintronate e poco disposte a mettere in gioco qualcosa o a mettersi in gioco. Mi chiedo dunque se allora la mia invettiva contro costoro, contro me stesso che faccio parte di coloro che addito, possa essere considerata corretta.
Quando un uso comune diventa buon uso? Ci siamo forse sclerotizzati e cristallizzati su queste modalità di convivenza sul suolo di una nazione, tanto da aver fatto diventare buon uso ciò che un tempo sarebbe stato detto cancro della nostra moderna società? Quando l'Italia ha smesso di ascoltare e guardare i propri giovani con la buona volontà di insegnare ad essi ed imparare da essi? Forse è successo così rapidamente da non rendercene conto, o, piuttosto, è l'esito di un lungo processo di erosione della nostra società e della nostra etica sociale che ci ha portato ad essere sempre meno disposti a fare e sempre più disposti a non fare. Forse è vero che è oramai più sensato chiudere gli occhi, le orecchie e la bocca. Del resto chi mai ci può dire che ci è conveniente l'agire rischiando di perdere quel poco che abbiamo, piuttosto che giacere languendo nell'inazione?
Folli. Folli i nostri politici e folli coloro che pensano tutto questo, folli coloro che hanno permesso che i tempi degenerassero, folli coloro che non hanno voluto guardare ciò che è passato sotto i loro occhi, folli coloro che vogliono costruire l'edificio del nostro futuro con mattoni di carta.
Quando l'Italia sveglierà l'Italia? O è forse tardi per ogni risveglio quando ormai questa nazione giace in un profondo coma senza ritorno? Certo è che se permetteremo l'estinguersi di quest'ultimo barlume di luce, di questa misera fiamma che è la possibilità di un futuro migliore, la quale risiede nelle lanterne dei giovani d'oggi, come potremo guardarci ancora in faccia e dirci cittadini di un popolo senza stato e di uno stato senza popolo?
Dal canto mio dico soltanto NO. Mi rifiuto di pensare ai miei studenti come a carne da macello da gettare sulle braci del mondo moderno per sfamare i soliti maiali di Orwell per i quali la legge è "un po' più uguale che per gli altri". Dal canto mio continuerò sempre a guardare negli occhi i miei studenti, vorrò ricevere da loro il meritato ritorno, vorrò riconoscere i miei occhi nei loro occhi per comprendere cosa è stato compreso. Dal canto mio voglio sperare che non tutto sia finito e che ci possa ancora essere per me e per quanti come me la possibilità di apportare l'enorme e necessaria quantità di migliorie al fine di ristabilire la decenza in una moda di modi ormai indecenti. Dal canto mio voglio pensare a me stesso non come ad un insegnate privato, ma, piuttosto, come ad uno studente a lezione di futuro, con la voglia, sempre presente, di imparare a mia volta come fare imparare meglio, di essere un mattone di dura pietra che forma altri mattoni di dura pietra, costruendo, insieme, l'edificio di quel futuro che spero potremo ancora chiamare Italia.
Forse, ancora una volta, in questo breve articolo di sfogo e di denuncia, se vogliamo, esce fuori quel me sognatore che non rinuncia, frattanto, a concedersi qualche momento di illusoria e forse vana speranza, credendo, per qualche momento, all'utopia di una società agente per se stessa, che domina se stessa senza lasciarsi dominare, che è parte attiva nella realtà sociale propria ed altrui, che tenti di diventare un degno pezzo del gigantesco puzzle che è questo strano enigma che chiamiamo Vita. Questa eterna battaglia tra la società e se stessa, in definitiva, è forse l'unica cosa che, veramente, quando rivolta al fine di migliorarsi e migliorarci, è ciò che profondamente ci caratterizza e legittima come esseri umani. Concludo, come sempre, con una citazione, ritrovando profonda verità nelle parole del sociologo Ralph Dahremdporf:
«La società è nello stesso tempo un sistema integrato e un sistema in conflitto.»
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